martedì 31 maggio 2016

Gli Elcasaiti, agli albori dello gnosticismo cristiano.




Come è noto la prima eresia, la prima elaborazione teologica difforme dall’originale annuncio della salvezza operato dalla tradizione nata dalla testimonianza apostolica fu lo gnosticismo. La nascita di questo pensiero alternativo all’interno del Cristianesimo testimonia il verificarsi del suo primo incontro/scontro col sistema filosofico greco-ellenista (Adolf von Harnack, 1885). Ne nacque un sincretismo che fondeva religioni misteriche, astrologia magica, filosofie ellenistiche e giudaismo alessandrino. Ma alcuni studiosi hanno anche accertato che filosofie appartenenti al pensiero gnostico erano già presenti in ambiente asiatico, Palestina e Mesopotamia, ben prima dell’avvento del Cristianesimo (F.W. Brandt, 1889).

Tali filosofie ebbero un’influenza anche sui movimenti e gruppi di giudeo-cristiani, come ad esempio gli Ebioniti, che restando fortemente attaccati alle tradizioni e ai riti ebraici abbandonarono il primo nucleo centrale cristiano ebraico. Si formarono così, restando nell’esempio, gli Ebioniti gnostici, caratterizzati da una teologia sempre più densa di contenuti gnostici. Nel III secolo alcuni elementi di questo gruppo cominciarono a rifarsi agli insegnamenti contenuti nel libro scritto nel II secolo da un certo Elcasai originario della Mesopotamia sasanide. Fu probabilmente composto in lingua aramaica, il frammento n°9, infatti, contiene un gioco di parole comprensibile solo in aramaico (J. Irmscher, New Testament Apocrypha, vol. 2, p. 685, citato in Kirby). Attorno al 220 un esponente di tale gruppo, Alcibiade di Apamea, si recò a Roma, sotto il pontificato di Callisto I, per diffondere e predicare gli insegnamenti contenuti nel libro di Elcasai (Ippolito di Roma, Elenchos, IX, 13-17). Alcibiade andava dicendo che in quel libro vi fosse la rivelazione che Elcasai avrebbe avuto da un gigantesco angelo, alto 154 chilometri e largo 27, identificato come il Figlio di Dio ed accompagnato da sua sorella, cioè lo Spirito Santo. Il gruppo sopravvisse fino alla fine del IV secolo. Gli elcasaiti possono, quindi, essere considerare come i progenitori dello gnosticismo cosiddetto magico astrologico di origine persiana, rappresentato da Cerinto, Carpocrate, Menandro e specialmente da Mani, in gioventù elcasaita, fondatore del Manicheismo.

Gli Elcasaiti credevano in un Dio creatore e avevano un concetto docetico della persona di Gesù, cioè pensavano che l’umanità e le sofferenze di Gesù Cristo fossero solo apparenti e non reali. Inoltre, essendo Ebioniti, rifiutavano gli scritti di San Paolo e vaste parti dell’Antico Testamento, praticavano la circoncisione, credevano negli influssi astrali ed erano convinti che il battesimo potesse essere praticato svariate volte come rito purificatore e taumaturgico. Questo gruppo, quindi, faceva parte della grande corrente dello gnosticismo, un cristianesimo eretico frutto di speculazioni e filosofie umane che arrivò a costituire l’eresia per eccellenza dei primi secoli della storia della Chiesa. I grandi teologi del II secolo come Tertulliano, Ippolito di Roma e, soprattutto, Ireneo di Lione risposero agli gnostici mettendo in luce il nucleo di irriducibile originalità del Cristianesimo: la testimonianza di una persona in carne ed ossa che ha realmente sofferto e dato la vita per poi risorgere e sconfiggere la morte.

Bibliografia

J. Danielou “La teologia del Giudeo-cristianesimo” EDB 1974;
G. Acquaviva, “La Chiesa madre di Gerusalemme”, Piemme Casale Monferrato 1994; 
M. Craveri “L’eresia. Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo“ Mondadori Editore, Milano, 1996;
M. Simon e A. Benoît, “Le Judaïsme et le christianisme antique, d'Antiochus Épiphane à Constantin”, Parigi, PUF, 1998;
J. Irmscher, "New Testament Apocrypha", vol. 2, p. 685.

http://jewishencyclopedia.com/articles/5513-elcesaites

martedì 24 maggio 2016

Gli elogi bipartisan a Pannella

"Marco Pannella nel corso della sua vita è stato soprattutto irriso e deriso, quando non vilipeso, e penso che alcuni omaggi postumi puzzano di ipocrisia lontano un miglio". Così si è espressa l'esponente radicale Emma Bonino sabato scorso in una piazza Navona gremita e commossa in occasione dei funerali laici di Marco Pannella.

Non sono quasi mai stato d'accordo con quello che affermano gli esponenti del partito radicale, ma devo ammettere che, stavolta, è difficile dare torto alla Bonino. Pannella è stato sempre un personaggio molto scomodo, per tutto l'establishment politico italiano, sia di destra che di sinistra. Ha sempre fatto politica in modo difforme dalle consuetudini sottraendosi da ogni logica di partito e ricorrendo in modo spregiudicato ad alcuni strumenti di democrazia diretta, come ad esempio l'istituto del referendum, in alternativa al normale corso parlamentare, arrivando a sfidare anche la legge per supportare le sue lotte con comportamenti borderline come, ad esempio, il consumo pubblico e diffusione libera dell'hashish. Eppure tutto il mondo politico, compresi, quindi, i suoi più acerrimi nemici ed avversari, si sono sperticati in elogi e riconoscimenti come se avessero sposato le battaglie di Pannella o i suoi modi di fare politica.

Senza nulla togliere al rispetto che si deve ad ogni persona ed in special modo a quelle che sono passate a miglior vita, a mio avviso bisognerebbe avere molta più coerenza e ricordare che Pannella rappresentava una delle voci più perniciose e deleterie del laicismo. La sua battaglia incessante per l'affermazione in Italia della legge sull'interruzione di gravidanza ha relegato il nostro paese nel novero delle nazioni assassine, è anche per colpa di quest'uomo che oggi in Italia vengono uccise centinaia di migliaia di vite umane. Purtroppo a Pannella e al partito radicale si deve anche il clima favorevole all'eutanasia che ha indotto i giudici a permettere l'assassinio dei poveri Piergiorgio Welby, nel 2006, ed Eluana Englaro, nel 2009. Ricordo anche le lotte di Pannella a favore della legalizzazione delle droghe leggere, della procreazione assistita, il suo anticlericalismo, la lotta per il divorzio, ecc.

Per tutto ciò non ho un buon ricordo di quest'uomo, la cui azione politica fuori dalle regole ed insofferente dei veri diritti fondamentali dell'uomo mi ha accompagnato fin dalla mia adolescenza ed è stata un pessimo esempio per tantissimi giovani miei coetanei. Per questo non sopporto, come la Bonino, questo coro unanime di elogi.
              


venerdì 13 maggio 2016

Il "cattolicesimo" secondo Renzi

"Ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo". E' questa la sconcertante affermazione che il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha rilasciato all'indomani del pronunciamento della Camera circa la legge sulle unioni civili con l'intento di rivendicare il merito della sua approvazione. Davanti alla prevedibile reazione dell'opposizione e dei cattolici il premier ha tirato dritto: "Rispetto tutti, io sono cattolico, ma faccio politica da laico!".


Renzi si ritiene "cattolico", ma in politica si comporta da laico. Può essere condivisibile questa presa di posizione? Bisognerebbe chiedere a Renzi cosa significhi per lui essere cattolici. Molto probabilmente per Renzi essere cattolici significa solo avere un'etichetta come tante che serve solamente come espediente per accattivarsi simpatie e consensi. Ma essere cattolici non dovrebbe prevedere una scelta profonda di vita? Condividere i valori fondamentali del Vangelo, così come ce li ha tramandati la Chiesa di Cristo? E tali valori non dovrebbero caratterizzare ogni aspetto del proprio comportamento o si è cattolici solo ad intermittenza, quando non si dà fastidio? Eppure Gesù, durante il suo ministero, ha inciso profondamente nella società ebraica del suo tempo. Ha denunciato i suoi errori, le sue ipocrisie e ha posto i suoi insegnamenti come punto di riferimento per tutti coloro che erano alla ricerca della Verità. Ma non solo questo! Gesù ci invita a mettere in pratica questi insegnamenti, a diffonderli, a renderli pubblici (Mt 10, 27).

Renzi dice di aver giurato sulla Costituzione e, quindi, di dover dare a lei la precedenza. A parte il fatto che la nostra Carta Magna non giustifica affatto l'equiparazione delle unioni tra persone omosessuali al matrimonio, ma l'amore verso Dio può passare in secondo piano? E' mai possibile che un cattolico reputi più importante un precetto umano rispetto alla legge d'amore di Dio? I cattolici, e i cristiani in genere, sono chiamati ad una missione da compiere: quella di essere sale, lanterna e lievito così da incidere nella società in cui vivono ed edificare il Regno di Dio, una realtà operante già da questa vita terrena (Lc 17, 20-21). Questo non significa prevaricazione e disprezzo delle idee degli altri, ma costituire un esempio, la presenza di Cristo nella società. Lo saprà Renzi che sul Vangelo non bisogna giurare? Anzi, da cattolico, non dovrebbe proprio giurare e il suo parlare dovrebbe essere sempre onesto e coerente con la sua fede (Mt 5, 37). I cristiani sanno di essere chiamati da Dio a testimoniare sempre la propria fede e a manifestare questo credo in ogni momento della loro vita e quindi anche nelle loro scelte politiche, consci di operare per il bene collettivo.

Mio caro Renzi, sul Vangelo non si giura, lo si vive.

venerdì 6 maggio 2016

Parte VIII - Autorità dei vangeli canonici

Tutto ciò che conosciamo su Gesù lo apprendiamo dai vangeli. Il Cristianesimo si fonda sul messaggio che gli apostoli e i discepoli hanno trasmesso in quanto testimoni oculari degli insegnamenti, dei miracoli, della morte e risurrezione di Gesù. Dapprima non ci fu il bisogno di scrivere dei resoconti scritti di tali fatti in quanto i ricordi erano freschi ed erano in vita ancora moltissimi testimoni. Le prime comunità cristiane provenivano dal Giudaismo dove la tradizione orale era più diffusa di quella scritta. 
Alle predicazioni evangeliche della risurrezione di Gesù, fatte dagli apostoli e dai primi cristiani, fa esplicito riferimento Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che ho anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli” (1 Cor 15, 3-7). Paolo scrive questa lettera tra il 53 e il 56, siamo, quindi, agli inizi della formazione di una tradizione scritta cristiana, vicinissima ai fatti riportati. Paolo ci dice di aver ricevuto la testimonianza degli apostoli e di altri 500 testimoni della risurrezione, per la maggior parte allora ancora viventi. Quando questi testimoni cominciarono a morire si avvertì la necessità di fissare per scritto quanto essi avevano visto e raccontato. Nacquero così i quattro vangeli, scritti per raccontarci la vita, la resurrezione di Gesù e le sue apparizioni in quattro Chiese differenti di luogo, di tempo e di mentalità. 
Il vangelo di Giovanni vide la sua redazione finale attorno al 100 d.C., molto probabilmente a Efeso, quello di Luca fu scritto verso il 60-70 d.C., quello di Matteo, molto probabilmente inizialmente composto in aramaico, tra il 50 e il 60 d.C. e quello di Marco, ritenuto il più antico, scritto verso il 60 d.C. a Roma secondo la testimonianza di Pietro. Ogni evangelista, oltre ai suoi ricordi personali, aveva raccolto le tradizioni di altri testimoni e della propria comunità cristiana. Si concretizzò così un’operazione di conservazione e trasmissione del messaggio della salvezza portato da Gesù. A tal proposito leggiamo nel prologo del vangelo di Luca: “Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1, 1-4). Questa tradizione, che nasce dalla vita delle prime chiese, dall’amore che regnava tra i membri delle comunità e verso gli apostoli, che annunciavano la buona novella di Gesù, dall’eroismo dei martiri, viene ancora oggi negata, derisa e dileggiata. Le fesserie che si leggono su libri come “Il Codice da Vinci” ed altra spazzatura simile non solo offendono il sentimento cristiano, ma dimostrano il disprezzo per ogni elementare regola di ricerca storico-scientifica. 

Ne “Il Codice da Vinci” i vangeli inclusi nel Nuovo Testamento vengono considerati come delle storie false, costruite ad arte, che non riportano i veri insegnamenti di Gesù. Secondo D. Brown fu l’imperatore Costantino a commissionare e finanziare una nuova Bibbia dove furono esclusi tutti i vangeli che testimoniavano i tratti umani del Cristo. In particolare si legge a pag. 275: “… i vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati [….] i rotoli evidenziano i falsi e le divergenze storiche, confermando così che la Bibbia moderna è stata scelta e corretta da uomini che seguivano un ordine del giorno politico, per promuovere la divinità dell’uomo Gesù Cristo e usare la sua influenza per consolidare la base del proprio potere…”. Quindi i vangeli canonici sarebbero delle farsette di epoca più tarda scelte apposta per abbindolare i creduloni e negare i veri vangeli, ossia quelli “gnostici”. 

Queste affermazioni sono molto gravi, perché, con scandalosa leggerezza, si permettono di infangare l’enorme autorità dei vangeli canonici. Non esistono altri scritti che possano vantare la stessa autorità. Essa deriva direttamente dalla testimonianza degli apostoli e delle prime comunità cristiane. Sull’origine di questi vangeli abbiamo testimonianze importanti e conosciamo il loro processo di formazione. Sappiamo che raccolgono la testimonianza diretta di coloro che hanno vissuto con Gesù, cioè gli apostoli e i discepoli della prima ora, ma anche quella della prima generazione dopo Gesù che ci ha trasmesso la tradizione orale, fortissima nelle prime comunità cristiane. Tutto ciò è attestato da un elevato numero di documenti letterari, possiamo contare sulla testimonianza di importanti esponenti di tali comunità, come Papia, il vescovo di Gerapoli; Giustino, filosofo e martire cristiano; Teofilo, vescovo di Antiochia; Ireneo, vescovo di Lione; il Canone Muratoriano e tutti gli scrittori cristiani posteriori. Ad esempio Papia, che fu discepolo di Giovanni l’evangelista e quindi testimone diretto della primissima fase di composizione dei vangeli, nella sua opera “Esposizione dei loghia del Signore”, a noi tramandata dallo storico Eusebio di Cesarea, scrive nel 110 d.C.: “Se in qualche luogo veniva uno che avesse seguito gli Anziani (cioè i discepoli, n.d.r.), mi informavo (da lui) delle parole degli Anziani, che cosa avesse detto Andrea, o Pietro, o che cosa Filippo o Tommaso o Giacomo o Giovanni o Matteo o qualche altro dei discepoli del Signore e ciò che dicono Aristone e Giovanni l’Anziano discepolo del Signore. Infatti pensavo che le cose che provengono dai libri non fossero così utili come quelle udite dalla voce libera e duratura” (Frammento in Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, III, 39, 1-16). Di questa sua antichità e della possibilità che ebbe di ascoltare testimoni diretti degli apostoli si avvalsero molti altri scrittori cristiani posteriori, tra cui Ireneo di Lione. Importantissime sono, allora, queste altre informazioni che Papia ci trasmette, sempre nella sua opera “Esposizione dei loghia del Signore”: “Anche questo diceva il presbitero: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza, ma senza ordine, tutto ciò che egli ricordava delle parole e delle azioni di Cristo; poiché egli non aveva udito il Signore, né aveva vissuto con Lui, ma, più tardi, come dicevo, era stato compagno di Pietro. E Pietro impartiva i suoi insegnamenti secondo l’opportunità, senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei detti del Signore. Cosicché non ebbe nessuna colpa Marco, scrivendo alcune cose così come gli venivano a mente, preoccupato solo d’una cosa, di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire alcuna menzogna a riguardo di ciò". E ancora riguardo a Matteo: “Matteo scrisse i detti [del Signore] in lingua ebraica; e ciascuno poi li interpretava come ne era capace” (Frammento in Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, III, 39, 1-16). Eusebio di Cesarea ci trasmette anche questa altra testimonianza di Clemente, vescovo di Alessandria vissuto tra il 150 ed il 215 d.C., che riferendosi alla predicazione di Pietro ai romani, dice: "La luce della religione rifulgeva con si affascinante splendore nelle menti di coloro che udivano Pietro, che essi non si appagarono di aver inteso solamente l’esposizione orale di questa predicazione divina e, con ripetute istanze pregarono Marco, l’autore del vangelo e seguace di Pietro, di lasciar loro scritto un memoriale di quell’insegnamento impartito a viva voce; e non desistettero sino a tanto che non lo compose: così essi furono la causa della redazione del vangelo secondo Marco. Dicono che Pietro conobbe il fatto per rivelazione dello Spirito Santo e, rallegratosi per lo zelo di quella gente, ratificò lo scritto da leggersi nelle Chiese" (Frammento in Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, II, 15). La tradizione della Chiesa ritiene, quindi, che il vangelo di Marco è stato ratificato nientemeno che da Pietro in persona, il principe degli apostoli, l’uomo a cui Gesù affidò la sua Chiesa. Da un altro documento molto importante, del 190 d.C., Il frammento muratoriano (chiamato così perché scoperto dal Muratori nel 1740), traiamo la seguente informazione: “…il terzo libro del vangelo lo scrisse Luca […] il quarto libro dei vangeli lo scrisse Giovanni, uno dei discepoli…”. 

Mentre i vangeli di Giovanni e Matteo traggono la loro autorevolezza ed autenticità dalla testimonianza diretta dei loro autori, in quanto apostoli chiamati al loro ministero direttamente da Gesù, abbiamo visto come il vangelo di Marco è ratificato da Pietro. Stessa esigenza si avverte per il vangelo di Luca e, infatti Paolo, di cui Luca è discepolo, sente il bisogno di verificarne la conformità con gli apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni (Galati 2, 1-10). La lettera di Paolo ai Galati è stata scritta non più tardi del 57 d.C. e il primo confronto con i “capi” degli apostoli a Gerusalemme è detto avvenire 17 anni prima, quindi nell’anno 40 d.C., solo sette anni dopo la morte di Gesù. E’ una ulteriore conferma che l’evangelizzazione attinge a fonti fresche ed è rigidamente controllata, non è possibile aggiungere né togliere nulla che non sia approvato dagli apostoli. Ovviamente le redazioni dei vangeli canonici arrivate fino a noi risentono sempre, specialmente nel caso del vangelo di Giovanni, dell’influsso della fede delle comunità che ce li hanno trasmessi, ma ciò non inficia in alcun modo la validità della loro origine storica. 
Niente di tutto questo si riscontra per i vangeli “gnostici” di cui non si conosce alcuna tradizione che indichi chi siano i loro autori, non sono in alcun modo collegati ad una tradizione apostolica, anche perché molto più tardi (II-VI secolo d.C.) dei canonici, ma quel che è più importante, non hanno alcun tipo di riconoscimento dalla comunità cristiana. A tal riguardo diversi esponenti dello gnosticismo cercarono un riconoscimento dalla Chiesa di Roma, ritenuta da sempre, per i meriti di Pietro e Paolo (cfr. Ireneo Lione, Cipriano di Cartagine, Policarpo di Smirne, Eusebio di Cesarea, ecc.), la chiesa principale dove era conservato il deposito dell’ortodossia della fede. Attorno al 140 d.C. venne a Roma dalla Giudea un certo Cerdone, uno gnostico che ripudiava il Dio vendicativo del Vecchio Testamento per il Dio buono e misericordioso del Nuovo Testamento. Successivamente dal Ponto, una regione dell’Asia minore, si presentò Marcione, altro esponente gnostico, che propose una radicale opposizione al giudaismo e all’Antico Testamento (R.M. Grant, “Gnosticism an Early Chrystianity”, Columbia University Press; Edizione riveduta 1967). Tutti e due questi personaggi furono decisamente respinti, addirittura Policarpo, vescovo di Smirne, discepolo dell’apostolo Giovanni, che in quel periodo (inizio del pontificato di Aniceto, n.d.r.) era presente a Roma, rispose così al tentativo di saluto da parte di Marcione: “Ti conosco! Ti conosco! : tu sei il primogenito di Satana” (Ireneo di Lione, “Adversus haereses”, III, 3, 4) e (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, IV, 14, 7). Nello stesso modo si comportò l’apostolo Giovanni con un altro gnostico, un certo Cerinto, incontrato alle terme di Efeso (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, IV, 14, 6). Anche uno dei più grandi esponenti dello gnosticismo, cioè Valentino, proveniente da Alessandria, si recò a Roma per vedersi riconosciuta la sua dottrina, anzi aspirò addirittura ad essere eletto vescovo (Pseudotertulliano, “Adversus omnes haereses”, n.17.). Infatti il capo della comunità in cui nacquero i cosiddetti “vangeli gnostici”, come quello detto “di Tommaso” o quello “di Filippo”, scrisse lui stesso un vangelo detto “della Verità” in cui avvedutamente non presenta critiche al giudeo-cristianesimo e non ripudia alcun scritto del Nuovo Testamento. Quando, però, divengono palesi le sue eresie sull’unità di Dio e la bontà della Creazione, anche lui viene decisamente allontanato. 

Il processo di formazione dei vangeli non dipese, quindi, dall’imposizione di una autorità laica, ma si sviluppò all’interno della comunità cristiana sulla base dell’autorità delle testimonianze degli apostoli e dei discepoli di Gesù.