venerdì 15 luglio 2016

La Chiesa ed il "secolo oscuro"

Uno dei periodi più oscuri della vita della Chiesa è senza dubbio quello indicato da molti storici col termine di “Secoli bui”, ossia il periodo iniziale del Medioevo, l'Alto medioevo, che orientativamente va dalla caduta dell’impero romano fino all’anno 1000 dopo Cristo. In particolare un secolo, il decimo del primo millennio, è considerato da molti storici come il “secolo oscuro della Chiesa” per antonomasia. In soli 50 anni ben 45 papi ed antipapi guidarono la Chiesa e il mondo cattolico, la maggior parte per pochi anni e qualcuno solo per qualche mese o settimana. In quel periodo vi furono ben sei scismi, 15 papi vennero deposti, 14 morirono in carcere, in esilio o assassinati. Imperversavano la “simonia”, cioè la compra-vendita di beni ecclesiastici, di cose sacre, ed il “nicolaismo”, cioè la vita sregolata degli ecclesiastici. La storiografia laicista ha sempre sottolineato l’estrema decadenza del papato di quel periodo arrivando a parlare di “governo di femmine e prostitute”, di una vera e propria “pornocrazia romana”, termine molto forte coniato in Francia.

In effetti in quegli anni l’intromissione di potenti famiglie laiche romane e del circondario, con alcune figure femminili dispotiche, ma anche dell’autorità imperiale, provocarono alla Chiesa danni incalcolabili. Sono tristemente note le figure di Teodora e, specialmente, della figlia Marozia, la quale detenne per diversi anni il potere di influire sulla nomina del papa, fu amante di papa Sergio III e fece assassinare papa Giovanni X che aveva cercato di sottrarsi al suo dominio. Questa donna contribuì alla nascita della sconcertante leggenda della “papessa Giovanna” che fingendosi uomo sarebbe stata eletta papa per poi partorire un figlio avuto da un amante durante una processione. Una leggenda senza alcun fondamento storico, ma che ben illustra il livello di reputazione a cui era scaduto il soglio pontificio. In quel periodo il potere dei laici era divenuto assoluto, il papato fu in balìa dei duchi di Spoleto che imposero l’assurdità del concilio del cadavere, della potente famiglia dei Crescenzi che imposero ben tre papi, dell’imperatore Ottone I che pretese dal papa di essere consacrato imperatore, della famiglia dei conti di Tuscolo che imposero altri tre papi con l’ultimo dei quali, Benedetto IX, eletto ad una età scandalosamente giovane, tra i dodici e i vent’anni, che arrivò a vendersi la successione pontificia al proprio padrino (che divenne Gregorio VI) cercando poi di sposarsi!

Nonostante queste vicende facciano molta impressione, non bisogna cadere nella facile tentazione di condannare la Chiesa bollandola di immoralità ed indegnità, come fanno i laicisti. Occorre, infatti, considerare che già dal VIII secolo la Chiesa si trova sotto il continuo controllo del potere civile. Appena dopo la caduta dell’impero romano, nel corso dell’Alto Medioevo la Chiesa si trova ad essere al centro di un patrimonio molto esteso (costruzioni, terreni) il cui reddito, a norma del diritto canonico, è destinato a mantenimento del clero e all’assistenza dei poveri. Dal IX secolo questo patrimonio non è più solo appannaggio della Chiesa, ma anche, e soprattutto, del potere laico che esercita un diritto di proprietà a motivo della protezione che assicura alla Chiesa. Tale diritto di protezione appartiene dapprima solo al sovrano, ma poi, con la decadenza del potere regale, viene trasferita ai feudatari del regno. Gradatamente avviene, così, che il signore feudale viene a disporre del beneficio ecclesiastico come cosa propria, sceglie egli stesso la persona che gli conviene e gli affida il beneficio ecclesiastico attraverso una cerimonia di investitura, consegnandogli le chiavi, se è un parroco, o il bastone pastorale, se è un vescovo. Una procedura profondamente equivoca perché in tal modo l’ordine spirituale diveniva subalterno all’ordine temporale, con addirittura il beneficiato, appartenente al clero, che doveva prestare giuramento al proprio signore, anche se laico.

Tutto ciò portò progressivamente agli eccessi del X secolo, ad un papato completamente succube del potere politico e completamente avulso dalla sua missione. Da una situazione del genere, completamente deteriorata, la Chiesa seppe rialzarsi. A diverse riprese, in occasione di Concili, i papi, a cominciare dalla fine del X secolo e agli inizi dell’XI, come Benedetto VII e Silvestro II, cominciarono a manifestare riprovazione per gli abusi del potere laico e tentarono delle riforme. Ma fu solo con papa Leone IX, dal 1049, che iniziò una vera e propria riforma generale della Chiesa che portò papa Niccolò II, dieci anni dopo, a condannare per la prima volta il principio stesso dell’investitura ricevuta dai laici. Con i decreti emanati nel 1059 Niccolò II riserva l’elezione del papa ai soli cardinali e proibiscono l’investitura dei benefici ecclesiastici da parte dei laici. Successivamente, in seguito alla logica reazione del potere laico, nel 1075 ha inizio la lotta per le investiture tra il papa Gregorio VII e l’imperatore e i suoi successori. Gregorio VII seguì con maggiore severità la linea tracciata dai predecessori convinto della necessità di eliminare l’investitura laicale. Tutto ciò condusse al conflitto con l’imperatore Enrico IV che con alterne vicende portò il papa in esilio a Salerno dove morì, mentre a Roma dominava l’antipapa Clemente fedele all’imperatore. Tutto ciò può sembrare una sconfitta, ma in realtà si trattò di una grande vittoria morale che diede la spinta decisiva alle idee riformatrici in Occidente.

Così la pratica dell’investitura laicale decadde progressivamente fino ad arrivare ad una soluzione giuridica con il concordato di Worms nel 1122, tra l’Imperatore Enrico V e papa Callisto II, che fece distinzione tra l’ufficio spirituale e il beneficio temporale. L’autorità ecclesiastica si riservò il conferimento del primo, dando ai prelati l’investitura per mezzo dell’anello e del pastorale. L’imperatore, che poteva presenziare al momento dell’elezione, interveniva poi per conferire nell’ecclesiastico l’investitura riguardante i benefici materiali. 

Ma come è necessario evitare l’intromissione dei laici nella scelta degli ecclesiastici, è altrettanto necessario sottrarre al potere civile ogni ragione di intervento e ciò è possibile solo attraverso la nomina alle cariche ecclesiastiche di persone veramente degne ed irreprensibili. Per questo nel 1074 Gregorio VII iniziò la sua riforma emettendo , in un sinodo riunito a Roma, specifici decreti contro la simonia e il nicolaismo proprio per contrastare il rilassamento dei costumi e della disciplina ecclesiale. E’ in questo periodo che il celibato, già consigliato da molto tempo ai candidati al sacerdozio, finì per diventare una regola generale. Rinunciando al matrimonio e perciò alla possibilità di una trasmissione degli uffici e dei benefici, il clero cattolico in pratica rifiutò di integrarsi nell’ordine feudale e poté più facilmente mantenere in mezzo al mondo una testimonianza stimolante alla santità. 

Le pesanti critiche di indegnità e totale inadeguatezza provenienti da certa storiografia laicista lasciano il tempo che trovano, la Chiesa assoggettata al potere laicale finisce inevitabilmente per tradire il suo mandato e perdere di vista la missione affidatagli da Cristo. Ma la storia insegna che se viene liberata da tale potere la Chiesa diviene capace di recuperare il suo ruolo santificatore della società, un ruolo che comprende anche l’insegnamento della Parola di Dio. Per tali motivi ha diritto ai mezzi materiali che gli permettano di esercitare la propria attività in piena indipendenza. Ciò non impedisce, però, che l’ecclesiastico resti un cittadino di uno Stato temporale, a cui, come persona privata, deve prestare la giusta ubbidienza. 



Bibliografia

L. Genicot “La spiritualità medioevale” Ed. Paoline 1958;
G. Miccoli “Chiesa gregoriana” La Nuova Italia, Firenze 1966;
A. Fliche, A. Vasina “La riforma gregoriana e la riconquista cristiana (1057-1123)" Ed. Paoline, 1972;
E. Amman, A. Dumas, O. Capitani “L’epoca feudale. La chiesa del particolarismo (888-1057)” Ed. Paoline 1973;
R. Morghen “Medioevo cristiano” Laterza, Bari 1974;
F. Cardini e M. Montesano “Storia medievale”, Firenze, Le Monnier Università, 2006

martedì 5 luglio 2016

Parte X - L’autorità testuale del Nuovo Testamento

Una tra le critiche più diffuse che riguardano i vangeli canonici allude alla loro scarsa fedeltà ai testi originali, in quanto le versioni giunte fino a noi avrebbero subito, nel corso dei secoli, manipolazioni e rivisitazioni. Nella scimmiottatura di un libro storico che è “The Holy Blood and The Holy Grail“, gli autori M. Baigent e R. Leigth, muse ispiratrici di D. Brown, riescono a scrivere delle castronerie senza precedenti. Si legge: «… Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora […] Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo. Il Nuovo Testamento nella sua forma attuale è sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell’ortodossia, “seguaci del messaggio” con precisi interessi da difendere». 


Questa affermazione è semplicemente ridicola. Denota la totale ignoranza di cosa sia un documento storico, del fatto che esistano e che servano a dimostrare ciò che si afferma. Gli studiosi sono a conoscenza di almeno 500 manoscritti del Nuovo Testamento anteriori al IV secolo e i vangeli riportati nei grandi codici del IV secolo d.C. si presentano totalmente fedeli a quelli che ritroviamo nei papiri del I secolo d.C. Come riporterò in questo paragrafo, tali documenti sono conosciuti e studiati da moltissimi anni e possono essere visionati da chiunque. Quindi nel IV secolo non si è verificata alcuna revisione, non è stato imposto alcun messaggio adulterato. 

Al contrario di quanto operato dai vari M. Baigent, R. Leigth, H. Lincoln, L. Gardner, B. Thiering, ecc… effettuare una seria analisi storica significa verificare sempre l’affidabilità delle fonti a cui si attinge. Il metodo scientifico ci insegna che per giudicare la storicità di un testo antico occorre anche valutare l’esistenza di una sua valida testimonianza documentale. Di nessun scritto dell’antichità conosciamo il manoscritto originale dell’autore, questo perché il materiale usato, come papiri e pergamene, essendo di origine organica, si sono deteriorati con il tempo. Quindi, al pari di qualsiasi opera letteraria del mondo classico, anche dei vangeli del Nuovo Testamento non abbiamo la prima stesura originale. Però al contrario di ogni altro scritto dell’antichità il Nuovo Testamento è attestato dai manoscritti più antichi e numerosi che esistano. Sono conosciuti attualmente più di 2500 manoscritti contenenti il testo greco del Nuovo Testamento. Il più antico, il papiro Rylands P52, che riporta parti del vangelo di Giovanni, risale circa al 125 d.C., quindi è una copia scritta a meno di 30 anni dall’originale! L’autorità testuale del Nuovo Testamento non ha eguali. Basta pensare che per gli scrittori greci il tempo che intercorre tra l’originale e il primo manoscritto in nostro possesso è almeno di 1200 anni! Per Eschilo, ad esempio, vissuto tra il 525 e il 456 a.C., il primo manoscritto di una sua tragedia è del XI secolo d.C., tra stesura e copia un intervallo di ben 1500 anni! Per le opere di Platone si parla addirittura di 13 secoli. Altro dato importante è la quantità di tali testimonianze scritte. Se consideriamo tutti i codici del Nuovo Testamento, cioè le copie manoscritte prima dell’avvento della stampa, queste sono almeno più di 5000, un numero enorme, specie se confrontato con quello di tutti gli altri testi dell’antichità. Di Orazio abbiamo solo 250 codici, di Virgilio 110, di Platone 11, di Tacito appena 2. 

Il famoso biblista tedesco Rudolf Thiel ha dichiarato: «…nessun libro dell’antichità è stato trasmesso con tanta accuratezza, abbondanza e antichità di manoscritti come il Nuovo testamento» (R. Thiel “Jesus Christus und die Wissenschaft”, Berlin, 1938.). 

Tre sono i generi di scritti che ci hanno trasmesso il testo del Nuovo Testamento: papiri e codici, citazioni e versioni antiche. I papiri e i codici (1) rappresentano gli scritti più antichi. Ai fini della critica testuale sono importanti circa 266 codici onciali (2) e circa 84 papiri. Vediamo ora alcuni dei papiri e i codici più antichi e, quindi, più importanti.

Papiro Rylands P52: è il più antico manoscritto del Nuovo Testamento, risale al 125 d.C. Prende il nome dalla biblioteca in cui è conservato: la John Rylands library di Manchester. Fu trovato in Egitto e con esso fu provato definitivamente che il vangelo di Giovanni non è uno scritto posteriore al 100 d.C. Riporta sulla facciata anteriore i versetti 31-33 del capitolo 18 del vangelo di Giovanni e in quella posteriore i versetti 37-38 dello stesso capitolo (Gesù di fronte a Pilato).



Papiro Bodmer II P66: è del II secolo d.C., prende i nome dal suo possessore Martin Bodmer. E’ conservato presso la biblioteca Bodmeriana a Cologny, vicino a Ginevra, in Svizzera. E’ un vero e proprio codice papiraceo, cioè un libro con fogli di papiro costituito da sei fascicoli per un totale di 104 pagine. Contiene tutto il vangelo di Giovanni scritto in onciale biblico.






Papiro Chester Beatty P45: come tutti gli altri prende in nome dallo studioso inglese che li acquistò nel 1930-31. Attualmente si trovano a Dublino. Risale al 200 d.C. Contiene gran parte dei vangeli di Matteo, Marco e Luca, e degli Atti degli Apostoli.








Papiro Chester Beatty P46: è il più antico manoscritto delle lettere paoline, risale anch’esso al 200 d.C. ed è composto da 86 pagine. Questo papiro dimostra che già verso la metà del II secolo si era completata la raccolta delle 14 lettere paoline, addirittura prima dei 4 vangeli canonici. Tutto ciò è confermato da un brano della seconda lettera di Pietro: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficile da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per la loro propria rovina» (2 Pietro 3, 15-17).

Papiro Bodmer VIII (P72): è il più antico manoscritto delle lettere cattoliche, contiene le lettere di Pietro e la lettera di Giuda. Vi sono anche alcuni scritti apocrifi, cioè non ritenuti ispirati, come altra corrispondenza di Paolo con i Corinti, un’omelia di Melitone di Sardi sulla Pasqua, l’Apologia di Filea, ecc… Le due lettere di Pietro, incluse in questo papiro, sono conservate in Vaticano, in quanto furono donate dal Dr. Martin Bodmer alla Santa Sede.




Papiro Bodmer XIV-XV (P75): appartiene alla collezione bodmeriana di Cologny (Ginevra). Anch’esso risale alla fine del II secolo d.C., contiene interamente i vangeli di Luca e Giovanni e, aspetto importantissimo, è pressoché identico al testo del Codice Vaticano o Codice B. Questo dato permette di confutare totalmente la teoria delle “recensioni”, secondo la quale i vangeli sarebbero stati “rielaborati” nel IV secolo.






Codice Vaticano o Codice B: è chiamato così perché fin dal 1475 è riportato nel catalogo della Biblioteca Vaticana con il numero 1209. E’ un codice in pergamena scritto in caratteri onciali ed è ritenuto, risalendo al 300 d.C., la più antica copia integrale della Bibbia.



Codice Sinaitico o Codice S: anch’esso è un codice in pergamena e risale alla metà del IV secolo. Contiene sia l’Antico che il Nuovo Testamento ed altri scritti come le lettere di Barnaba, il Pastore di Erma e testi di Padri Apostolici. Fu scoperto nel 1844 nella biblioteca del monastero di Santa Caterina al monte Sinai dal ricercatore Costantino von Tischendorf . Nel 1933 fu venduto al British Museum di Londra dove è attualmente conservato. 





Codice Alessandrino: è conservato al British museum, e risale al V sec. Contiene tutto il Nuovo Testamento.

Codice di Washington: contiene i vangeli nell’ordine preferito dalle comunità cristiane occidentali cioè: Matteo, Giovanni, Luca e Marco. E’ del V secolo.

Altri scritti importanti cono le citazioni, cioè brani del Nuovo Testamento riportati da scrittori antichi nelle loro opere. Sono molto numerose tanto che se fossero riunite tutte in un solo documento si potrebbe ricostruire tutto il Nuovo Testamento. Questo dato ci dimostra come la conoscenza dei vangeli fosse diffusa in un’area geografica vastissima.

Infine, abbiamo le versioni antiche, cioè le traduzioni dal testo originario greco. Dal punto di vista storico sono molto importanti perché composte in tempi vicinissimi alla redazione degli originali. In alcuni casi talune traduzioni sono addirittura anteriori ai codici più antichi. Ad esempio la “Vetus latina”, prima versione in latino del Nuovo Testamento, composta a partire dal II secolo d.C.

Tutti questi codici, citazioni e versioni antiche del IV-V sec. d.C. possono essere tranquillamente messi a confronto con gli scritti del I sec. d.C. Sono totalmente fedeli, confrontandoli tra di loro non emergono variazioni sostanziali. Ciò indica chiaramente che derivano tutti dalla stessa fonte, ossia gli originali del I sec., in caso contrario avremmo delle redazioni discordi. La teoria “revisionista” dei vari M. Baigent e R. Leigth è una vera e propria fesseria, non c’è stata alcuna revisione nel IV secolo e non c’è traccia di alcun complotto per difendere chissà quali “interessi”. 

Questa abbondanza documentale ha permesso alla moderna critica testuale la ricostruzione del testo più fedele possibile all’originale, il cosiddetto “testo critico”. Questa edizione critica del Nuovo Testamento è, oggi, unanimemente accettata dalla comunità scientifica e da tutte le confessioni cristiane (Cattolici, Protestanti e Ortodossi).

Per concludere vorrei riportare un’autentica cretinata scritta a pag. 299 de “Il Codice da Vinci”: «I testimoni che hanno potuto vedere il tesoro del Sangreal dicono che occupava quattro enormi bauli. Si dice che in quelle casse ci siano i documenti puristi, migliaia di pagine di documenti risalenti a prima di Costantino, scritti dai primi seguaci di Gesù, in cui gli viene reso omaggio come maestro e profeta assolutamente umano. Inoltre si dice faccia parte del tesoro il leggendario Documento Q, un manoscritto la cui esistenza è ammessa persino dal Vaticano. A quanto si dice, è un libro con gli insegnamenti di Gesù, forse scritto da lui stesso».

Già dall’uso abbondante di espressioni del tipo: “si dice”, “forse”, possiamo capire la totale inconsistenza di queste affermazioni. Non esistono e non sono mai esistite migliaia di pagine di documenti, risalenti a prima di Costantino, che affermino la natura umana di Gesù. Le prime affermazioni circa una natura solo umana di Gesù sono l’eresia ariana del IV secolo e poi quella nestoriana del V secolo (3), quindi contemporanee e successive all’epoca di Costantino. Fa sorridere, poi, il riferimento al “leggendario” documento Q che avrebbe scritto lo stesso Gesù (che mi tocca sentire, n.d.r.). Povero D. Brown, è talmente ignorante che le sue puerili panzane fanno quasi tenerezza. In realtà, molto probabilmente, il nostro professoruncolo del New Hampshire lo ha sentito nominare da qualche parte e lo ha infilato nel suo minestrone.

Nell’ambito dello studio sulla formazione dei vangeli, il cosiddetto “documento Q” è una ipotetica fonte testuale (Q deriva dal tedesco “Quelle” cioè fonte) immaginata dagli studiosi che hanno elaborato la teoria delle “due fonti” (in tedesco, Zwei-Quellen-Theorie). Secondo questa teoria il vangelo di Matteo sarebbe stato composto attraverso l’assemblaggio di due fonti primarie, che già circolavano presso la comunità cristiana primitiva. Una di queste sarebbe il vangelo di Marco, reputato il più antico e l’altra, appunto, il “documento Q”, immaginata come una raccolta dei detti di Gesù (i cosiddetti loghia). Tali documenti non dovevano essere necessariamente scritti, ma potevano consistere anche in una tradizione orale tramandata a memoria, fenomeno tipico della cultura ebraica antica. Questa teoria spiegherebbe perché il materiale di Marco si trova, più o meno, in Matteo e Luca, mentre il materiale della fonte “Q”, pur riscontrandosi ugualmente nei vangeli di Matteo e Luca, è assente in quello di Marco.

Come è facile capire la teoria del “documento Q” non può essere usata per i giochetti di D. Brown, ma è un elemento che appartiene allo studio serio e scientifico della Scrittura a cui partecipano anche gli studiosi cattolici e la Chiesa Cattolica. Senza alcun mistero.



Note
(1) nel I secolo d.C. si scriveva su fogli costituiti da lunghe strisce intrecciate di papiro, materiale molto fragile, ma economico, riuniti in lunghe strisce arrotolabili, oppure su pergamene (da Pergamo, la città dove ne venne perfezionato l’uso) costituite dalla pelle degli animali ripulita da peli e carne e, di seguito, trattata con calce e pietra pomice. Risultavano molto più resistenti, ma costose.

(2) cioè scritti in lettere maiuscole, alte un’oncia. Sono i codici più antichi, vanno dal III secolo fino al XI secolo. I più recenti erano scritti in corsivo, vanno dal IX secolo fino all’invenzione della stampa.

(3) l’eresia ariana, che prende il nome da Ario, un prete di Alessandria, negava la divinità di Gesù affermando l’esistenza in Lui della sola natura umana. L’eresia nestoriana, invece, che deriva da Nestorio, Patriarca di Costantinopoli nel 428, affermava che la divinità del verbo di Dio “abitava” nel corpo umano di Gesù come in un tempio. L’ortodossia cattolica ha sempre affermato, invece, che Gesù ha due nature: sia quella umana che quella divina.